«Racconto spontaneo» di Bruno Soldini: «La cà vegia»
«Racconto spontaneo» di Bruno Soldini: «La cà vegia»
Andato in onda sulla TSI il 18 novembre 1978, «La cà vegia» è il primo racconto spontaneo di Bruno Soldini interpretato da attori occasionali che si esprimono nel dialetto del Mendrisiotto. Il film narra la storia una coppia che, stanca di vivere in un appartamento a Chiasso, cerca di acquistare una vecchia casa da riattare in un villaggio della regione.
La presentazione del film di Bruno Soldini si leggeva alle pagine 2 e 3del settimanale «Tele Radio 7», in edicola per la settimana dal 18 al 24 novembre 1978:
L’esordio di un nuovo filone di spettacolo-documento Con i due film di Bruno Soldini che vedremo nel corso della stagione, «La cà vegia» e «Ul vent al suga», avremo forse occasione di trascorrere momenti piacevoli, di godere di qualche sicura sorpresa, e di specchiarci — il che non è poco — nel ritratto abbastanza fedele di aspetti della vita che ci è più prossima: situazioni, ambienti, costumi, personaggi, ravvivati dal condimento essenziale di una parlata che è tanto nostrana quanto spontanea, per nulla artefatta: e spia eccellente, quindi, della realtà di una condizione umana, colta nel suo manifestarsi diretto. Ma chi si arrestasse alla gradevolezza del bozzetto tutto costruito in casa, o per caso in questa chiave ne rilevasse limiti o confini, probabilmente cadrebbe in qualche fraintendimento, che forse vale la pena dissipare in anticipo, per favorire quella consapevole attenzione che ci sembra l’avvenimento meriti. Nel primo caso, infatti, è da segnalare che al di sotto di un accettato gioco drammaturgico che aspira certamente anche al sorriso (al cosiddetto «svago» caro agli amici delle formule), l’intento affettuoso e lucido dell’autore va molto più a fondo: il ritratto che fa dei suoi personaggi minimi, delle sue microcomunità, lascia intravvedere con sufficiente chiarezza problemi umani, conflitti, delusioni e speranze, che sono la sostanza della vita che a molti di noi tocca vivere, in un momento storico di contraddizioni che sembrano spesso travalicare le nostre capacità individuali di razionalizzazione e di azione, ma che poi si riducono all’unica realtà che conta, quella della nostra privata esistenza, alla ricerca perpetua di un equilibrio tra gioia e dolore, legittima soddisfazione di profonde aspirazioni e frustrazioni che nascono dal continuo compromesso che ammala i pochi giorni disponibili. E ciò vale per il maestrino d’estrazione contadina e la sua sposa, intrappolati da un vivere robotizzato negli ingranaggi umiliati di spazi abitabili provveduti da un sistema che sembra abbia eletto a proprio ideale archi-tettonico la cella d la gabbia, e che sognano solo una casa come quella dei loro «vecchi», nella «loro» terra: sogno, si vedrà, quanto mai arduo, nella prima delle due storie. E vale per gli anziani di un villaggio, che ormai guariti dalle fuorvianti euforie delle labili stagioni dei «surriscaldamenti economici», lottano, a modo loro, e in modi magari ambigui, ma forse autorizzati dalla retta intenzione di una «legittima difesa», perchè il loro paesaggio tradizionale non sia deturpato dalle sempre risorgenti volgarità della speculazione e dell’affarismo: tema centrale della seconda storia. C’è insomma, sotto, parecchio di più del bozzetismo e del macchiettismo che appare alla superficie più immediata, con effetti per altro francamente piacevoli. Nel secondo caso, qualora l’occhio cadesse sui «limiti», varrebbe almeno la pena di notare come si tratti di limiti voluti, cercati e scelti, proprio per non adulterare una realtà seguita e perseguita con una esplicita volontà di «presa diretta»: e che bellurie stilistiche, solipsistiche vanità formali, pretenziose quanto superflue ornamentazioni intellettualistiche, avrebbero ferito nel cuore di una intelligente ricerca di verità. Ciò nulla toglie al carattere speri- mentale della proposta, che comporta anche i rischi non sempre elusi dall’encomiabile spiegamento d’abilità artigianale di cui ha dato prova la piccola équipe dei realizzatori, cui ha fatto costante riscontro anche l’esiguo o irrisorio spiega- mento dei mezzi che aveva a disposizione: eppure, è forse al confronto di tematiche così profondamente avvertite e sentite, che un regista- autore ormai sperimentato come Bruno Soldini, ha dato la misura migliore e più matura delle sue possibilità, e un’indicazione esatta di modi espressivi che gli sono congeniali e che garantiscono, più che promettere, sviluppi di singolare intensità. Nel quadro dei programmi della TSI, i due episodi si affiancano come I’esordio di un autonomo filone di spettacolo-documento, che dovrebbe avere lunga vita, e armoniosamente collegarsi ad altre linee direttrici, che parallelamente cercano di sottolineare caratteri propri e peculiari di una produzione che garantisca I’identità specifica di una programmazione televisiva Svizzera italiana: sia nel rilievo dato ad opere elaborate a livello letterario di autori svizzeri italiani, in lingua o dialetto, sia nella funzione di tramite di opere — squisitamente televisive o anche cinematografiche — di autori delle altre aree linguistiche svizzere, sia nello sviluppo di potenzialità produttive nostre, orientate verso un repertorio di respiro europeo, sia ancora nei progetti in corso che mirano a valorizzare il talento dì altri autori svizzeri italiani, come prevedono operazioni in corso a livello di film televisivi originali. Un quadro organico, che si va componendo lentamente, e attraverso varie difficoltà, ma sicuramente: e in vista di una sempre accresciuta corrispondenza tra le concrete possibilità della TSI e le esigenze di fondo del suo pubblico.
Dopo questa introduzione generale, che dava conto del progetto editoriale della TSI, nelle stesse pagine Bruno Soldini descriveva in questo modo il suo lavoro:
«La cà vegia» e «Ul vent al suga» sono due tentativi di film a soggetto, realizzati con pochi mezzi. «La ci vegia» racconta la semplice vicenda di una coppia che, stanca di vivere la costrizione di una casa d’appartamenti a Chiasso, cerca di comperare una casa vecchia, da riattare, in un villaggio dei Mendrisiotto, fantasticando su un vivere diverso. «Ul vent al suga» descrive invece iI mondo deicontadini di un comune di fronte al cambiamenti del mondo d’oggi e confrontati con un caso di speculazione fondiaria. La vicenda è ambientata a Tremona. Gli attori sono tutti occasionali e si esprimono in dialetto del Mendrisiotto, improvvisando i dialoghi su una trama prestabilita ma molto elastica. Anche la sceneggiatura è stata d’altra parte concepita in modo da poter essere modificata in ogni momento delia realizzazione. I mezzi limitati e la libertà di movimento concessa agli attori hanno a volte creato problemi tecnici che non è stato possibile risolvere in modo perfetto, specialmente per quanto riguarda la registrazione del suono diretto. Si tratta Insomma di due film sperimentali volti soprattutto a cercare e valorizzare le capaciti espressive della nostra gente.
Un maestro di scuola elementare tenta disperatamente di rimanere aggrappato a ciò che resta del mondo rurale ticinese. Siamo alla fine degli anni Settanta; non poche coppie ticinesi ritengono che il dialetto costituisca un ostacolo per la riuscita scolastica dei propri figli e iniziano, a volte con risultati grotteschi, a parlare esclusivamente italiano con loro. A partire dal primo dopoguerra numerose proprietà vengono vendute dai Ticinesi (con la convinzione di aver realizzato un vero affare) a Confederati o, peggio, a cittadini tedeschi di una certa età, che hanno accumulato la loro fortuna in modo sospetto durante il periodo del Nazionalsocialismo. Passeggiando per il Gambarogno, per Ascona, Brissago, Gandria o Carabietta si trova l’accesso alle rive lacustri sbarrato da cartelli intimidatori: “Eingang verboten”, “Privat”. I nuovi proprietari (o padroni) non fanno nemmeno lo sforzo di usare la lingua del posto. È proprio negli anni in cui è stato girato questo film che si comincia a considerare la svendita del nostro territorio un errore divenuto ormai irreparabile; le nuove generazioni nostrane si trovano private delle proprietà di famiglia, svendute in cambio di cifre ritenute inizialmente importanti, ma poi rivelatesi irrisorie.