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Il corriere del Soprassosto

1910
Mario Giamboni
Mario Giamboni

Son tre generazioni che si trasmisero ininterrottamente nella medesima famiglia, onoratamente e fedelmente il servizio di corriere del Soprassosto. E «corriere» divenne un secondo nome col quale lo denominano tutti, uno pseudonimo d’onore che ne spiega lo scrupoloso adempimento del dovere e l’attaccamento all’impiego pubblico, per quasi un secolo. Cambiamento della guardia, ma continuità di saggezza tradizionale. «Ul curèr» era chiamato il nonno, poi il padre, ed ora il figlio; così «i curèr» ne è l’intera famiglia.

Giovan Giuseppe Vitali da Ghirone fu il primo ad assumere nel 1861 officialmente la mansione delicata di trasportar la posta da Olivone a Campo, e fino a Cozzera, l’ultimo abituro di Ghirone ai piedi della Greina, ogni giorno e con ogni tempo, percorrendo quel sentiero sulla sinistra del Brenno che ancora oggi si scorge. Nell’ampia borsa di cuoio che gli pendeva ad armacollo, ebbero posto dapprima poche lettere, un qualche telegramma, detto allora dispaccio, ed un solo giornale: notizie venute spesso da lontano dagli emigranti a Parigi, a Lione, a Londra, a Milano, a Torino, che davano loro nuove, liete o tristi che fossero, ai parenti rimasti lassù, radicati al povero villaggio alpino come i larici alle rocce dei monti. Poi lo sostituì nel 1870 il figlio Carlo (1845–1906). Ed era l’uomo bonario, dallo sguardo sereno di vecchio saggio, che conobbi da fanciullo quando trascorrevo l’estate a Ghirone: e colla blusa stinta dall’acqua e dal sole, il berretto coll’ala lucida sormontato dallo stemma postale e da quello svizzero, i bottoni d’argento e le orlature rosse gli conferivano un certo aspetto autoritario tra il civile ed il militare, che aggiunti ad una folta barba grigia avrebbe messo soggezione, se non avesse avuto sempre e per tutti una gentile parola di presentazione e di saluto. Aveva un sorriso largo che esprimeva l’innata bontà d’animo, un cuor d’oro sotto quella ruvida scorza temprata dal sole e dal gelo: un cuor d’oro e tenero alle miserie altrui, del quale si diceva, v’era anche chi ne abusava. Sempre così, chi è troppo buono è ricambiato sovente coll’ingratitudine e l’inganno. Due o tre volte la settimana poi, in quel tempo in cui la messaggeria non era soverchia come oggi ed a Campo non c’era negozio, né osteria, «ul Carlin curèr» portava, oltre quello postale, un sacco di pani di frumento ancora caldi, del prestino d’Olivone, facendo un modesto e talvolta incerto guadagno di pochi soldi.

Intanto il vecchio sentiero del Sosto venne abbandonato, perché nel 1890 si era inaugurata la carreggiabile sulla sponda destra, ed anche il corriere lasciò, forse con qualche rimpianto quella strada percorsa le mille volte, per transitare sulla nuova, arditamente scavata nella roccia a strapiombo, ma non meno insidiosa di quella vecchia e che doveva già il 24 marzo 1891 ghermire la prima vittima, il mio povero nonno.

Negli ultimi anni il corriere Carlo Vitali aveva per compagno un cagnaccio peloso, ma buona pasta come il padrone, sempre dinanzi sulla strada solitaria e resa paurosa dal fragore del fiume che mugge in fondo al baratro la millennaria disperazione: si fermava alle voltate aspettando e poi, avanti di casolare in casolare preannunciando l’arrivo del procaccia, finché dopo Baselga via di gran carriera fino a Cozzera, scodinzolando per rassicurare e rasserenare con l’abbaiare allegro la famiglia Vitali, che durante i giorni di bufera e di valanghe restava lunghe ore in angosciosa attesa. I disagi e le fatiche ne minarono la forte fibra di montanaro, ed una lunga malattia lo accasciò e lo portò alla tomba nel 1906. Allora, appena ventenne, ne prese il posto il figlio, l’attuale corriere, il buon Giovanni [1886-1963, n.d.c.], che ereditò coll’impiego le virtù di famiglia: schiettezza del tratto, inalterata devozione al dovere, incurante dei pericoli e delle intemperie, di modi semplici di fanciullo, modesto e timido in apparenza, ma coraggioso fino alla temerità dinanzi ai pericoli che spesso incontra d’inverno sulla strada del Sosto.

Giovanni non è più neppure lui un giovinotto, benché due bambini gli scorrazzan d’attorno: ed anche lui porta sovente un’ispida barba brizzolata, come il ritratto virile di Verdi, ed accompagnato dal fedele can barbone dagli occhi nascosti tra il pelo e le corte orecchie lanose. D’estate, quando oltre la corrispondenza ordinaria ci son pacchi e pacchetti e valige e sacchi di militari in servizio o di villeggianti, tanti che le sue spalle non potrebbero portarli tutti, ha ricorso all’ausilio d’un asinello, un somaro docile come quello della «fuga in Egitto». Quanti segreti, quanti affari, quante notizie attese con ansia e che recaron gioia o dolore, passarono nell’ampia tasca del corriere: quante amare delusioni, e lutti e rimpianti vennero ammucchiati coi giornali, i cataloghi, gli stampati, le ordinanze governative e le pastorali del vescovo.

Quando lo incontro, due o tre volte all’anno, sulla strada ch’egli percorre quotidianamente, è una festa per lui e per me. Mi ferma con un sonoro: «Ohoh, chi si vede! Ciau parentaccio!». E mi pianta in viso quegli occhioni chiari ed espressivi di perfetto galantuomo; e mi prende le mani con effusione d’amicizia, perché siamo anche lontani parenti e non ancora scaduti di grado.

Poi ci scambiamo le nostre notizie sulla salute, la famiglia, la campagna ed i lavori. L’ultima volta che l’incontrai fu quest’estate, ad una svolta dell’Orrido, dove trasalii per l’improvviso affacciarsi del cane che precedeva il padrone ed il somarello: lui saliva ed io scendevo. «Ohoh, chi si vede! guarda, guarda» e giù una di quelle sonore e larghe risate che lo rendon simpatico fin dal primo momento. E così ogni giorno, all’infuori delle feste, Giovanni percorre quella strada immancabilmente in tutte le stagioni e per qualsiasi tempo da 38 anni, come già suo nonno, come già suo padre, colla stessa scrupolosa diligenza e prestigio del servizio: incurante dei disagi, sfidando i pericoli, dimentico dell’ingratitudine, insegna coll’esempio le virtù della stirpe ai figli, ancor piccoli, ma che certamente non smentiranno il buon sangue.

Se ancora non lo conoscete, incontrandolo in qualche punto strapiombante sul burrone, non sorridete al suo aspetto burbero e dimesso; salutatelo con rispetto perché il vostro saluto è rivolto senza dubbio al miglior fattorino delle poste federali, ad un fior di galantuomo e perfetto gentiluomo, ad un forte che ha messo a repentaglio cento volte la vita, che fu tante volte a tu per tu con la morte, come il soldato per fedeltà al suo oscuro dovere. Che ha ereditato le virtù familiari dei suoi maggiori, meritandosi la riconoscente stima di tre generazioni in una sperduta valle alpina, dove un pugno di montanari, faticosamente ed umilmente, stentan la vita ignorati e non abbastanza considerati da quelli che s’accontentan di visitare e d’ammirare il Soprassosto in una di quelle meravigliose giornate estive, quando l’ampia conca è tutta barbagli di sole e splendor di fiori, e non sanno e non possono comprendere, gente del piano e della città, quanto triste e penosa sia lassù la vita, nel lungo inverno.

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Giovanni Vitali (1886_1963) corriere 1927

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Giovanni Vitali (1886-1963)

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Giovanni Vitali

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Archivio Museo della Memoria: MDM0919

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22 agosto 2024
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