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«Cronache di Prugiasco», di Remo Legnazzi

18 aprile 1979
RSI Radiotelevisione svizzera di lingua italiana

Remo Legnazzi è l’autore di questo film andato in onda il 18 aprile 1979 nel programma televisivo «Argomenti». Il documentario, basandosi su immagini e testimonianze degli abitanti ma senza alcun commento dell’autore, ritrae i principali momenti della vita sociale, economica e familiare del villaggio contadino bleniese nell’arco di un intero anno. Se ne ricava un quadro interessante della durezza della vita contadina in montagna, come pure dei problemi, delle preoccupazioni e delle speranze che animano i protagonisti. Tra le testimonianze interessanti anche quelle di alcuni marronai: un anziano ormai rientrato in Valle dopo lunghi anni passati a vendere castagne a Parigi, ed un altro più giovane che tutt’ora guadagna da vivere facendo il marronaio in una città della Svizzera tedesca.

A pagina 4 del settimanale «Teleradio7» in edicola per la settimana dal 14 al 20 aprile 1979 si leggeva la presentazione dell’opera di Remo Legnazzi:

Il film del regista bernese, di origine ticinese, Remo Legnazzi, rappresenta uno squarcio di vita contadina che si distende sull’arco di un anno, da primavera a primavera, in questo piccolo villaggio (meno di 200 abitanti) dalla media Blenio.
La «cronaca» non è un idillio vallereccio: Legnazzi vuol fornire — e ci riesce — uno studio sociologico della condizione contadina in uno degli ultimi villaggi dove questo studio è ancora possibile. Devo dire che Prugiasco fa intimamente parte del paesaggio della mia infanzia e della mia gioventù: sono cresciuto a pochi chilometri, qui conosco fatti, persone e costumi di vita. Sono dunque coinvolto emotivamente da questo film, ma anche conosco profondamente le «radici» alle quali il regista ha voluto (non so se inconsciamente) riagganciarsi. Ci è riuscito? Direi di sì, e forse persino al di là delle intenzioni.
Legnazzi ha voluto — mi sembra — fornire essenzialmente una testimonianza su una situazione di oggi: lo spaccato di un comune rurale nel 1978, reso anche attraverso un attento studio linguistico. Il film è interamente parlato nel dialetto locale di Prugiasco. Il risultato è convincente. La bellezza delle immagini, il ritmo lento e un po’ dolente, le soluzioni sceniche introdotte dal regista non sono fine a sé stante, ma supporto per presentare delle situazioni ben precise e tutte significative. Legnazzi ha adottato la formula del documentario. Ma senza imporre in alcun momento la sua presenza né — apparentemente — effettuare scelte proprie.
Il regista ha lasciato i suoi personaggi vivere tranquillamente la dura vita quotidiana dei contadini, dal piano al monte, dal monte all’alpe. Ha lasciato raccontare a loro, direttamente e in prima persona, nel dialetto locale, i loro problemi, le loro preoccupazioni, i loro affanni. «Interviste indirette» dunque (ci sono solo le risposte a domande non espresse) e mancanza del «lettore fuori campo» che cucia assieme i vari episodi o che li commenti. C’è invece l’invenzione felicissima della vecchia contadina affacciata alla finestra (immagine molto bella resa con un’inquadratura a tutto campo, efficacissima) che riappare di tanto in tanto nel film e «racconta» la vita del paese. Essa non dipana ricordi, parla delle situazioni attuali. Lo spettatore ha così l’impressione di essere l’interlocutore privilegiato della contadina, e di penetrare in prima persona in quel mondo, altrimenti a lui chiuso, di una comunità di contadini in un villaggio di montagna.

Le vacanze sono i giorni di pioggia

I problemi emergono, in questo film, con insolita forza, buttati là con estrema semplicità dagli stessi contadini. La durezza delle condizioni di vita, ovviamente. I lavori del fieno al piano, ai monti, sui prati ripidissimi; lavori che impegnano nella bella stagione tutta la famiglia; la legna da raccogliere per l’inverno assegnata secondo riti comunitari antichissimi; le lunghe giornate di nebbia sull’alpe, dietro alle bestie; le estenuanti veglie per la nascita del vitello; i lavori casalinghi, incessanti e prostranti delle donne, per «tirar su la famiglia».
Poi ci sono le lunghe separazioni; il marito solo nell’una o nell’altra cascina che la famiglia contadina è obbligata a sistemare ad abitazione sulla montagna, la moglie al paese ad occuparsi dei figli che devono andare a scuola e che «non devono far figura» nei confronti dei compagni che contadini non sono ormai più. C’è la solitudine delle lunghe giornate di lavoro che si concludono, a notte inoltrata, con una frugalissima cena solitaria. C’è soprattutto, su tutto l’arco dell’anno, l’assillo del lavoro senza requie, senza soste, senza vacanze («le nostre vacanze — dice uno dei personaggi — sono i giorni di pioggia quando non si può far niente»). Feste, poche: le bestie mangiano anche la domenica. Ai monti capita che il vecchio emigrante tornato al paese suoni la fisarmonica in cascina, in una riunione di amici attorno al fuoco, attorno al fiasco: allegria contenuta. In paese vi sono le serate trascorse all’osteria: conversari seri attorno alle preoccupazioni della giornata. In casa c’è la televisione.

Come trent’anni fa

A parte quest’ultima mi accorgo, guardando le immagini del film di Legnazzi, che la vita dei contadini di Prugiasco non è cambiata gran che da come l’ho conosciuta io 30 anni fa. L’era della motorizzazione, le strade di montagna, il trattore invece delle sgroppate di due o tre ore con la gerla colma (famose le donne di Prugiasco che salivano all’ alpe con cento chili sulle spalle), la motosega invece dei rudimentali attrezzi d’un tempo, tutto ciò non ha cambiato sostanzialmente la vita del contadino. Nel film si ritrovano i momenti essenziali d’un tempo: il vecchio che costruisce gerla e cesti, il bucato al lavatoio, la «mazza» del maiale, la nascita del vitello… Il senso profondo della civiltà contadina è sempre uguale.
Eppure qualcosa è cambiato, è cambiato profondamente. I contadini che vivono nel film di Legnazzi sono di una razza che sta morendo, e che se ne rende conto. Lo si avverte non tanto nelle immagini quanto nelle situazioni, nelle parole rassegnate dei protagonisti. Si intuisce che le fatiche lamentate non sono soppor- tate per trasmetterle affigli insieme con le bestie, ma solo per «tirare a- vanti» finché durano le forze. Si nota lo smarrimento rassegnato dei vecchi che non hanno nessuno a chi tramandare l’azienda, lo sento anche nel dialetto, che non è più quello, dove l’antico «sciuìì» diventa «gerlo» anche nella bocca del contadino. Sta morendo anche il dialetto come muore l’emigrazione d’un tempo: l’ultimo marronaio stagionale continua forse perché è più «prugiasco» degli altri (e infatti è l’unico a parlare ancora il dialetto «sarrù»). Gli emigranti a Parigi sono ormai… parigini. Gli abitanti di Prugiasco, gli altri, che non compaiono nel film, sono muratori, operai, impiegati. Come dappertutto.
«Il nostro dramma — dice la donna alla finestra — è che i giovani contadini non trovano più una ragazza che li sposi». Non è un luogo comune, è una realtà. L’unico giovanotto che nel film «manda avanti» l’azienda è rimasto solo e sa di esser condannato a rimaner solo. S’indovina che i bambini in grembiulino nero non «faranno più i paesani». Questo destino è tragicamente illustrato dalla contadina alla quale è morto il marito proprio tra una stagione e I’altra di lavorazione del film. Il regista ha ritrovato una donna sola, due figli «con un mestiere», e una stalla piena di vacche da vendere. La scena in cui l’ultima vacca esce di stalla, tirata dal suo nuovo padrone, mentre la vedova chiude piano l’uscio, è una delle più tristi del film. Scena struggente, emblematica del- la morte di una civiltà.
Paul Guidicelli

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20 giugno 2022
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