Cui bei ciocatoi d'om bot
Il maggio francese era, al massimo dell’inventiva che al Laras si raggiungeva verso le undici e mezza, un fieno tagliato prima del tempo o un maggengo degli emigrati in Francia che quando tornano la mettono giù dura ma non sanno ancora mangiare con la forchetta e al terzo bicchiere vanno al gabinetto. Qua si taglia in giugno, che pressa c’è?, disse il Ligio, sì, lui, che al momento di sfalciare o rastrellare procedeva alla ritirata in cantina, se non la sua, quella degli altri, chiunque, ovunque. E a proposito di cantina, e già che ci siamo, l’uva in settembre come andrà?, chiese allarmato il Sciott, quello del frassino cresciuto in mezzo alla casa e almeno sono appese le salopette e le pignatte, ma quale armadio delle balle, prendono aria. L’annata? Bisogna vedere se non piove sul più bello, se qua e se là, adesso è indietro, è in avanti, tutti a dire con la vaghezza difensiva degli scornati più e più volte e allora è meglio stare schisci, sa sa mai.
Ma non erano innocui pensierini di retrovia, era proprio che ne andava della scorta per l’anno dopo, che già a maggio, sessantotto o meno, ogni maggio, se non aprile, appunto, prosciugava pericolosamente sotto il calcolo entusiasta dell’anno prima, col rischio di piegarsi a qualche vino italiano, non sia mai, sono ladri e poi è acquetta. Invece il nostro, ciola, sì che è un bere, scuro come in bocca, altro che dolcetto e bardolino, nomi da cagnetti. Bondola e clinton, mericana e pazienza per quel merlotocchio di moda e da sciori che il verderame non basta mai, non so cosa se ne fanno, neanche per la grappa, neanche per i piedi o le tette, poco più di flemma. Questo era il Senesio a dirlo, ma tutti d’accordo in modo sostanziale. Senesio che portava la tazza di legno dal suo crot, mai stata lavata, orgoglio, graal.
Poi salta fuori ‘sto maggio francese dei ragazzini per la strada, evocato dal Mapeta che qualche libro lo leggeva e riusciva a collegare le parole degli altri con le sue. Mandato subito a cagare, che noi di buttare tempo a rivoltarsi proprio no, dicevano, no, che siamo inchiodati alle abitudini nostrane e sane. Il Mapeta, quel Mapeta ormai leggendario e implacabile, che tra l’altro alla cena dei liberali chiedeva bottiglie francesi anche al Crot dal Biondo e poi, una volta arreso, mischiava il bondola con la gazosa, come i luganesi per l’acidità, dicono addirittura che laggiù bevono il merlotto bianco, ma già, e poi ancora, magari adesso c’è anche il mericano bianco, non si sa più cosa inventare in questo sessantotto, e noi abbiamo questi due gomitoli che ogni tanto ci dicono basta, il vino bevuto non è troppo? Ma troppo cosa?
(I due gomitoli erano le sorelle Gilia a Silia, le padroncine del Laras alte un metro cinquanta, che si segnavano ogni minuto, per dire).
Il Sessantotto, che bello, otto anni, l’estate senza colonia, gli aerei nel cielo, le rondini.
Ma ormai.
Torno dopo cinquant’anni, passo oltre la chiesa, e toh: il Laras è aperto e le campane suonano. La porta è più piccola di quanto ricordassi. Indugio, origliando un flebile canto tra il tintinnio di tazze e bicchieri. Poi spalanco e il fumo delle mille sigarette, incatramato dai decenni, balza fuori, mi travolge facendomi cadere e fugge via nella notte, inseguito dall’afrore di vino e sudore e da uno sciame di bestemmie incolte. Intontito cerco di nuovo la maniglia, ma la porta non c’è, non c’è il Laras, non c’è niente. Neanche i bei ciocatoi d’om bot, imperterriti e finiti anzitempo.
Giorgio Genetelli
L’Archivio della memoria di Stabio è nato nel 2010, grazie allo stimolo di un gruppo di appassionati di storia e cultura con lo scopo di raccogliere le testimonianze dei diretti protagonisti della vita quotidiana del paese, prima che si attuasse il turbinio di innovazioni che lo hanno cosὶ profondamente modificato.