Celestina Pasquali Daccò e la sua vita
Intervista del 21 luglio 2016 di Guido Codoni, riprese e montaggio Aurelio Castagnoli.
Insegnante e infermiera diplomata, Celestina Pasquali Daccò (Milano 27.5.1919-Montagnola 03.08.2021) si attiva a sostenere, con un cospicuo donativo annuo, dal 1994 al 2006, la Facoltà di Teologia di via Nassa 62, a Lugano. Da quest’impegno costante per l’istruzione, prende avvio un’altra impresa di ampio respiro nel campo culturale e della ricerca scientifica di Celestina Daccò per il Cantone Ticino: la costituzione dell’Università della Svizzera Italiana, il cui campus con costruzione dei relativi edifici finanzia sin dal 1998, unica donatrice e per somme ingentissime, in accordo con l’allora consigliere di stato Giuseppe Buffi. Assicurando inoltre anche attualmente, tramite la Fondazione «Daccò» di Lugano, l’aiuto economico alle facoltà dell’USI e della SUPSI, alla Facoltà di Teologia luganese e a altri istituti per la ricerca, riconosciuti dal Sistema universitario svizzero, sempre con sede nel Canton Ticino.
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Archivio Museo della Memoria: MDM0271
La Storia di Celestina Pasquali Daccò
Aldo nel 1944 fa quasi ogni giorno la spola fra l’abitazione di via Arnaldo Mussolini, a Milano, e la «liasa», a Orago. Milano è già stata bombardata più volte – pesantissimo è l’attacco del 7 agosto 1943 con 198 tonnellate di bombe sull’intera città – e qualche ordigno ha centrato, per caso forse, o per dimostrazione simbolica, la sede del «Popolo d’Italia», il giornale col quale è nato vent’anni avanti il movimento di Benito Mussolini: la sede è nella stessa via, a pochi metri dalla palazzina dei Daccò. Non è più sicura la città, ma non son sicure neppure le strade. Aldo è vittima di un investimento mentre viaggia in auto verso la «liasa», a investirlo è una vettura dell’esercito germanico. L’esito è doloroso: una spalla fuori posto, costole rotte, gambe pestate duramente. Affiorano inoltre le conseguenze dei tanti incidenti occorsi alle gare dei fuoribordo sull’acqua: uno gravissimo, a Stresa, gli costa la frattura dell’omero, la paralisi a un braccio, una protesi che sostenga la mano destra.
Le conseguenze dell’incidente possono esser riassorbite, ma occorrono cure quotidiane che aiutino il fisico a rimettersi in sesto, applicazioni alle ferite, riabilitazione ai movimenti. Aldo si rivolge all’Ospedale Maggiore – anch’esso colpito, ma non distrutto, dalle bombe alla vigilia di ferragosto 1943 – perché in quella Milano devastata dal freddo e dalla fame, qualcuno trovi per lui un’infermiera preparata. Il dottor Luigi Ansaldo, primario chirurgo, cui la richiesta arriva, che ben lo conosce, sceglie una delle più giovani ospiti del convitto dell’ospedale: vi è entrata a 18 anni, la vigilia dell’entrata in guerra, e vi è rimasta bloccata dalle esigenze belliche. Si chiama Celestina Pasquali, la sua famiglia vive a Milano, ha il diploma d’insegnante, ma non sa quando riuscirà a istruire davvero scolaresche.
S’è diplomata traversando la città in tram, e mai che aprisse un libro per ripassare la lezione: nell’ora impiegata dalla vettura verde e nera per raggiungere la scuola, composta sulla panca in legno della fiancata, studiava piuttosto gli occasionali compagni del breve viaggio, divertendosi a immaginare da dove venissero, perché si fossero alzati presto quanto lei. Durante le vacanze aveva trovato impiego, due volte, in una colonia estiva della scuola «Mac Mahon»: la colonia, a dire il vero, durava 60 giorni, le sue vacanze 30 ma l’aveva tenuto nascosto per venir assunta; il direttore non se l’era presa, le aveva anzi riconfermato l’incarico l’anno successivo. Il diploma non le era servito ad altro, entrata l’Italia in guerra il 10 giugno 1940 e giunta al quinto anno di partecipazione al conflitto, con l’annuncio della capitolazione, l’occupazione tedesca, la guerra civile dopo l’8 settembre 1943… L’impiego da infermiera le riesce gradito, avendo scoperto di poter reggere l’impatto della sala chirurgica, pronta a passar lo strumento giusto a chi opera: la stima dei medici le è giunta immediata.
Cele accetta di buon grado il nuovo incarico: deve uscire dal convitto ch’è buio, raggiungere in tram la stazione, salire sul treno delle 6:04, scenderne a Cavaria e proseguire a piedi fino alla «liasa». Lì c’è quel commendator Daccò, bisognoso di cure: deve togliere i gessi, venir seguito sino alla completa riabilitazione. Sono semplici applicazioni, movimenti degli arti da riprendere sotto sorveglianza, non più di due o tre ore al giorno di trattamento. Farà in tempo a tornare prima che venga sera e sarà ben retribuita. Lo ha già visto in ospedale, quando s’immaginava quel commendatore panciuto, avanti negli anni, probabilmente noioso. Aveva scoperto invece trattarsi d’un uomo alto e snello, autoritario, quello che la riceve nella villetta entro il perimetro dell’azienda in vestaglia di ciniglia a righine rosse e blu, unico uomo nella casa piena di donne: la mamma Vittoria, la governante Corinna, la cameriera Gianna, 8 nipoti, 2 sorelle polacche accolte dopo i grandi bombardamenti…
Aldo è smagrito, un po’ come tutti in quei mesi, ma l’altezza lo fa apparir ancor più scarno. Le cure iniziano subito, prendendo a noleggio le apparecchiature. Sono semplici, richiedono solo delicatezza e pazienza. Celestina fa presto conoscenza del parco attorno alla villa, dei 3 magnifici cani comprati dal commendatore dai militari tedeschi – Heidi che viene dal fronte e i suoi piccoli, ai quali ha dato nome Champ, a ricordo del suo scottish, e Kira –, della famiglia ove è subito accolta con ogni riguardo. Passano i mesi, qualche volta l’infermiera viene invitata a trattenersi a pranzo, o a passare la notte, per prudenza, in una delle camere libere della villa; talora il commendatore – che dopo le sedute è ora in grado di muoversi liberamente – si offre di riaccompagnarla in auto a Milano.
Celestina è prudente, ha visto in quegli anni più di una delle compagne al convitto legarsi, per poco tempo e con poco sentimento, a uomini facoltosi in grado di risolver i tanti problemi della miseria di guerra: pensano di uscir così dal camicione violetto coi polsini bianchi, la loro divisa, sotto il grembiule da infermiera. Ha provato pena per loro. Quest’uomo – del quale si trova ad ascoltare le telefonate, di cui conosce il tono imperioso quando le dice, durante un massaggio «insista lì…», come fosse lui il medico – la guarda con sempre maggiore interesse, le rivolge domande sulla sua vita e provenienza. Viene il momento in cui, mentre viaggiano verso Milano a inizio primavera, arriva la temuta domanda. «Signorina», le dice, le mani sul volante, girando appena il volto verso di lei, «cosa mi risponderebbe se le dicessi che ho voglia di darle un bacio?». Se l’aspettava, ha pronta la risposta: «no», senza muover un muscolo; «no?», replica lui, convinto si tratti d’una schermaglia destinata a concludersi presto; «no», e il tono non è da commedia. Aldo si rabbuia, «guardi che io…», traccia con la mano, nell’aria, il segno della croce che pone su di lei, tagliata fuori subito, per sempre, da ogni futuro vantaggio; «no», dice ancora Cele, fiera di se stessa e di una morale che non lascia licenze. Inizia con quel diniego, in realtà, il rapporto fortissimo che li porterà al matrimonio nonostante la loro rilevante differenza d’età, e pertanto a una lunga vita insieme.
Cele è a Orago la notte del gennaio 1945, allorché mamma Vittoria d’improvviso si spegne, nella camera di fronte alla sua, assistita dalla fedele Gianna: provvede lei stessa a disporla per la vestizione. Il dottor Ansaldo, incontrato a fine inverno, le domanda, curioso: «ma non guarisce più, il commendator Daccò?», senza immaginare quanto sta accadendo. Cele e Aldo ascoltano assieme nell’aprile 1945 il comizio d’un esponente socialista in piazza Duomo: «Bravo, bravo», applaude Aldo, non facile a entusiasmi. Sostano fianco a fianco davanti alla tomba di Agostino Daccò, durante una visita al cimitero di Gaggiano, e Aldo, sorprendendo la giovane, le prende la mano e la presenta al padre, nell’unico modo che gli è possibile: «Papà, questa è mia moglie. Sono sicuro che sarà degna di te».
Aldo e Cele si sposano in Svizzera, a Lugano, con due cerimonie, in municipio, davanti al sindaco Giuseppe Lonati, e nella chiesa di Loreto, il 15 novembre 1945. La prima casa è quella di famiglia, in via Lovanio 5 – caduto il regime, si cambia ancora nome a strade che ne hanno uno imbarazzante – riattata nel 1946. Aldo scende in ufficio di prima mattina, sale al 4° piano all’ora di pranzo, prolunga l’intervallo con breve passeggiata sino al Covino, locale all’imbocco di via Manzoni, dove prende un tè e partecipa alle conversazioni prima di tornare alla scrivania che lascia tardi. Il locale è frequentato da artisti, giornalisti, scrittori, circolo autoselezionatosi in cui la sua figura alta, sovente silenziosa, viene accolta con la dovuta complicità. Ogni giorno, quando gli impiegati lasciano l’ufficio, Cele scende a tenere compagnia al marito, che s’attarda per le ultime incombenze, alla scrivania fra due finestre e con una sedia per lei su un lato. Alle 20, si spegne la luce e si va a cena.
Il venerdì, anticipando il fine settimana, raggiungono Orago, dove Aldo si ferma a seguire in azienda le questioni dei reparti, mentre la moglie continua per la Svizzera e l’aspetta alla casa appena acquistata a Montagnola, sopra Lugano. Il lunedi lasciano la Svizzera di prima mattina, Cele prosegue per Milano, Aldo si trattiene a Orago, lascia poi la fabbrica alle 13:30 e mezz’ora dopo entra nel cortile di via Lovanio 5. Aldo – convintosi al matrimonio dopo averlo sempre considerato una trappola – ha posto una condizione dolorosa: niente figli, non si sente sicuro per quell’ulteriore passo, Cele vi si adatta. I molti amici e interessi riempiono le loro giornate e stagioni. I viaggi, in coincidenza con i congressi dell’Associazione fra industriali presieduta da Aldo, li portano in giro per il mondo: una volta in visita, per ben 70 giorni, negli Stati Uniti, in Messico, alle Hawaii; altre volte a Londra, in India, in Russia, persino in Giappone. E quand’è lontano per lavoro, Aldo le scrive dall’albergo, ogni sera, utilizzando la sua penna stilografica caricata con un inchiostro verde.
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Archivio Museo della Memoria: MDM0271
L’Archivio della memoria di Stabio è nato nel 2010, grazie allo stimolo di un gruppo di appassionati di storia e cultura con lo scopo di raccogliere le testimonianze dei diretti protagonisti della vita quotidiana del paese, prima che si attuasse il turbinio di innovazioni che lo hanno cosὶ profondamente modificato.