Giuseppe Zoppi
L'8 ottobre del 2000, la Rete Uno della RSI mandò in onda la seconda puntata - dedicata a Giuseppe Zoppi - della serie di trasmissioni radiofoniche intitolata Acquarelli popolari, curata dal redattore Antonio Pelli e dallo storico della letteratura Renato Martinoni. Dal lavoro radiofonico prese forma il volume Scarpe e polenta. Un viaggio letterario nella Svizzera italiana del Novecento, pubblicato nel 2001 dall'editore Salvioni. Il libro è disponibile in molte biblioteche della Svizzera italiana. In questo articolo, riproduciamo la conversazione tra i due.
Siamo alla seconda tappa del nostro viaggio ideale e già si affaccia all'orizzonte la figura di un autore per molti versi un poco "scomodo": lodato molto in vita, al punto che i suoi libri furono compagni quasi indispensabili degli scolari del passato, ma poi messo in disparte dopo la sua scomparsa...
Tanto è stato letto, amato e lodato, mentre viveva, quanto poi - troppo presto - Giuseppe Zoppi è stato dimenticato e qualche volta anche ingiustamente denigrato dopo la morte. Nato a Broglio, in Valle Maggia, nel 1896, è morto nel 1952. Dal 1931 insegnava letteratura italiana al Politecnico federale di Zurigo.
Di lui è quasi d'obbligo citare Il libro dell'alpe*, rimasto certamente nella memoria di molti. Meno conosciuta è invece la vena lirica del nostro autore...*
Qualcuno, ancora oggi, giudica più convincente la produzione poetica che quella in prosa. Anche se in realtà non è sempre facile distinguere, nella pagina dello Zoppi, fra poesia e prosa. Spesso anzi la prosa si avvicina, fino a coinvolgerla, facendola interagire, alla poesia. E come non ricordare ancora che l'autore valmaggino è stato un ottimo traduttore? Ha volto in italiano, fra l'altro, facendole entrare in Italia (così come ha fatto conoscere anche altri autori svizzeri), alcune opere dello scrittore romando Charles-Ferdinand Ramuz (Paura in montagna, Separazione delle razze).
La critica letteraria accorda a Ramuz il pregio dello scavo psicologico dei personaggi: ciò che invece sembrerebbe mancare al nostro autore. Che, in compenso, ha una visione talora eccessivamente idilliaca della vita di un tempo...
Occorre intendersi sul concetto di idillio. Spesso questa parola serve a indicare, negativamente, l'immagine ideale e un tantino sdolcinata di una civiltà chiusa, ristretta, artefatta, da paese dei balocchi. Bisogna essere cauti, nel caso di Zoppi, e vincere certi luoghi comuni. C'è chi ha detto che quello che lui descrive è un mondo di cartolina: che la sua "via dei grandi pensieri" attraversa insomma i territori chicciosi dell'oleografia. Io non sarei così severo. Intanto Zoppi ha una sua precisa cultura: la cultura di un uomo che non sa, o non vuole, distinguere la vita dalla poesia: la vita è poesia e la poesia è vita.
Insomma è letterato...
... fino al fondo delle midolla. Egli convive con questo gusto anche quando descrive il proprio mondo valligiano, oppure sale sulle montagne, o rappresenta la vita sull'alpe. Qualcuno è arrivato a dire che lo scrittore di Broglio non è stato onesto nei confronti della propria valle. Perché avrebbe rappresentato un mondo di plastica, lontano le mille miglia dalla verità, dalla realtà, dalla pratica quotidiana delle cose (fatta, come ciascuno sa, di povertà, di tragedie, di emigrazione). Bisogna stare attenti, invece, proprio a non leggere lo Zoppi in questo modo: e soprattutto a non pretendere dalla sua pagina quello che lui, di proposito, per scelta estetica, non ha mai voluto fare. L'autore del Libro dell'alpe - uscito a Milano nel 1922 - è molto, molto letterato. Coltiva con pertinacia, religiosamente, una propria idea della scrittura. Non c'è mai stato, in lui, il desiderio di essere scrittore della realtà, testimone diretto delle vicende umane, scienziato verista, o ideologicamente impegnato, di mondi preindustriali. Il suo discorso è un altro. Dev'essere letto come autore imbevuto di letteratura e giudicato come tale. Il resto non ha nulla a che vedere con la qualità, o la non qualità, della scrittura.
Di sé cosa scrive?
Zoppi è sempre tornato a guardare sé stesso, a osservare (anche con un certo compiacimento) la propria opera. Si sentiva come una sorta di apostolo, un apostolo della cultura, investito quasi religiosamente del compito sacro, iniziatico, della scrittura.
L’Archivio della memoria di Stabio è nato nel 2010, grazie allo stimolo di un gruppo di appassionati di storia e cultura con lo scopo di raccogliere le testimonianze dei diretti protagonisti della vita quotidiana del paese, prima che si attuasse il turbinio di innovazioni che lo hanno cosὶ profondamente modificato.